L’ascesi cristiana e la vita nello Spirito Santo
Il termine “ascesi” va interpretato nel contesto della vita cristiana. L’ascesi è lo sforzo del cristiano per distaccarsi dalle cose in sé buone attraverso il sacrificio della propria volontà, per disporsi alla purificazione dell’anima operata unicamente da Dio per mezzo dello Spirito Santificatore. Un atto di sacrificio fatto per amore al Signore Gesù che ha offerto la sua vita sul legno della croce per salvarci. Un conformarsi alla volontà di Dio Padre, non solo evitando il peccato o chiedendo perdono (questo precede l’ascesi ed è ad essa indispensabile), ma mortificando la propria volontà per essere pronti a fare la sua volontà anche quando richiede il sacrificio della propria. Allargando l’orizzonte ermeneutico dobbiamo considerare che l’ascesi richiede un approccio semantico che tenga conto del linguaggio contemporaneo occidentale che ha abbandonato il concetto antropologico “anima-corpo” sostituendo o preferendo il concetto di “persona”, entrato nel linguaggio cristiano-cattolico soprattutto con il movimento filosofico-personalista di E.Mounier e con la rilettura del concetto di persona nella teologia tomista di J.Maritain. L’uso del termine “persona” da parte delle scienze positive, come ad esempio la psicologia e la sociologia, hanno con un contenuto semantico differente contribuito a rendere estraneo nella cultura moderna il termine “ascesi” che richiede il termine anima e/o spirito per essere compreso. La dimensione spirituale dell’uomo è stata ridotta alla dimensione relazionale tra le persone. L’impegno spirituale sarebbe l’impegno verso le persone bisognose, verso gli “ultimi”. Anche il digiuno quaresimale avrebbe valore solo in funzione di dare ai poveri quello che si ha risparmiato saltando un pasto. Confondendo il piano psicologico-relazionale con quello spirituale si è perso il significato del sacrificio della volontà da offrire in unione alle sofferenze del Signore Gesù senza disgiungerlo dal servizio ai poveri nel corpo e nell’anima (opere di misericordia corporale e opere di misericordia spirituale).
Se è vero che non è mai andato in disuso l’errore e la tendenza ad interpretare l’ascesi in termini “stoici e manichei”, un atto volontaristico fine a se stesso o un disprezzo radicale della materia di cui il corpo ne è la massima espressione, diversamente la tradizione spirituale della Chiesa fondata sull’insegnamento degli Apostoli e dei Padri della Chiesa è sempre stata una luce lungo i secoli per discernere il vero significato dell’ascesi cristiana:
In due modi portiamo la croce del Signore: quando con la rinuncia domiamo la carne e quando, per vera compassione del prossimo, sentiamo i suoi bisogni come fossero nostri. Chi soffre personalmente quando il prossimo è ammalato, porta la croce del Signore. Ma si sappia bene: vi sono alcuni uomini che domano con gran rigore la loro carne non per la volontà di Dio, ma solo per futile vanagloria. E ve ne sono altri, e molti, che hanno compassione del prossimo non in modo spirituale, ma solo carnale; e questa compassione non è in loro virtù, ma piuttosto vizio, per la loro esagerata tenerezza. Tutti costoro sembra che portino la croce del Signore, ma essi non seguono il Signore. Per questo la Verità dice rettamente: “Chi non porta la mia croce e mi segue, non può essere mio discepolo”. Infatti, portare la croce e seguire il Signore significa rinunciare completamente ai piaceri carnali e avere compassione del prossimo per vero zelo della beatitudine. Chi fa ciò solo con fine umano, porta la croce, ma non segue il Signore. (San Gregorio Magno, Predica per la festa di un santo martire)
Portare la croce ma non seguire il Signore
Portare la croce ma non seguire il Signore è realmente la grande illusione di sempre, oggi molto diffusa in contesti ecclesiali e ancor più con-fusa nel cuore dei cristiani. Seguire il Signore sulla via della croce non significa “fare delle cose” ma compiere la Sua volontà vivendo nello Spirito Santo. Anche il vivere nello Spirito Santo non va confuso con un atto volitivo intrapsichico che produrrebbe un intimismo o spiritualismo fuorviante e inversamente identico dall’identificarsi dell’io nel “fare delle cose”: un atto della mia volontà che abbia come contenuto il rinnegamento della mia volontà non porta a fare la volontà di Dio ma ad aumentare l’orgoglio e la superbia, anche compiendo grandi penitenze corporali o grandi opere sociali. L’atto della volontà così intesa è un atto propriamente di natura psichica e non spirituale. Perché sia un atto spirituale occorre rinnegare la propria volontà nell’Amore di Dio, nello Spirito Santo; questo avviene per grazia di Dio e per l’atto libero di obbedienza ad una altra volontà che non sia la nostra.
Questa dinamica spirituale vissuta nella libertà, permea tutta la vita del cristiano nella Chiesa; nell’obbedienza al Papa “Cattedra di Pietro”, nell’obbedienza al Superiore o al Vescovo, nell’obbedienza del Sacerdote alle norme liturgiche, l’obbedienza al Padre Spirituale, nell’obbedienza reciproca dei coniugi vincolati indissolubilmente dal Sacramento del Matrimonio, nell’obbedienza dei figli ai propri genitori… ma è forse nel Sacramento della Confessione che emerge maggiormente la dinamica spirituale del rinnegamento della propria volontà nell’umiltà di confessare al Sacerdote il peccato desiderato o deliberato dalla nostra cattiva volontà. Psicologicamente ci ripugna riconoscere davanti ad un altro la ferita del nostro peccato, ma è proprio lì che si determina li passaggio dallo psichico allo spirituale; il penitente che “porta la croce nel fare la volontà del Signore” non cerca scuse o conforto da un amico, non cerca una diagnosi o una terapia psicologica, non cerca semplicemente di sgravarsi da un senso di colpa… consapevole che il suo peccato ha offeso l’Amore di Dio, attraverso un atto di vera umiltà, confessa le proprie colpe al Signore Gesù che opera nella Chiesa per mezzo dello Spirito Santo. Con il perdono dei peccati il fedele riceve lo Spirito Santo, con il dono della pace il Signore Gesù effonde lo Spirito Santo sugli Apostoli costituendo quello che assumerà la forma attuale del Sacramento della Confessione:
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi! “. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. (Gv 20,19-23)
Lo Spirito Santo si oppone al peccato, ancor più distrugge il peccato e santifica il peccatore pentito. E’ così forte l’azione dell’Amore di Dio che nessun peccato, grave o grande che sia, può fermare l’opera santificatrice dello Spirito Santo, proprio perché l’opera santificatrice è dello Spirito Creatore e il peccato è opera della creatura umana; solo l’uomo con la sua libertà può opporsi, rifiutando il perdono o più semplicemente per mancanza di pentimento in quanto il peccato è voluto liberamente e consapevolmente. Questa opposizione netta è già avvenuta nell’ordine della creazione per una parte delle creature angeliche, pervertite e pervertitrici, che tentano l’uomo-Adamo alla stessa ribellione ispirando il capovolgimento di giudizio accusato-accusatore: in questo sta l’essenza del peccato contro lo Spirito Santo che non può essere perdonato in eterno: opporsi consapevolmente allo Spirito Santo fino a sostenere la menzogna accusatrice nel ritenere l’essere e l’agire di Gesù opera del diavolo.
Lo Spirito Santo sospinse Gesù nel deserto per il combattimento spirituale a nostro favore, perché la tentazione ribelle del diavolo fosse vinta dall’obbedienza redentrice del Signore che fu obbediente fino alla morte, fino alla morte di croce.
E essenziale concepire il combattimento spirituale come un’azione dello Spirito Santo nel cristiano che aprendogli il cuore si incammina per il deserto dell’ascesi. Ridurre il cammino spirituale o il combattimento spirituale ad un sforzo volitivo di natura psichica, o ad un impegno spasmodico nell’attività pastorale o sociale ha due conseguenze inevitabili: l’inaridimento per lo scoraggiamento o la superbia di attribuirsi l’illusione del successo confidando il se stessi. Due conseguenze mortali per l’anima e ancora più evidenti e deleteri veleni per il Ministero Sacerdotale.
Il Signore, nell’ultima cena, ci ha ricordato la fragilità del nostro camminare a piedi nudi sul sentiero della croce che ci ha tracciato per primo. Non ha lasciato soli gli Apostoli e i discepoli, donandosi perennemente nel Sacramento dell’Eucarestia e donando lo Spirito Santo autore e perfezionatore della sua opera di redenzione.
La lavanda dei piedi, abluzione nello Spirito Santificatore
Sant’Ambrogio per spiegare la vita nello Spirito introduce una chiave ermeneutica all’inizio del suo trattato dogmatico De Spiritu Sancto. Nel suo insieme è un testo patristico che definisce la natura e le peculiarità della Terza Persona della Santissima Trinità mettendo in evidenza la novità del contenuto semantico del termine “Spirito” che non trova continuità con la cultura greco-latina ed ebraica: essere eterno, personale, di natura divina, non creato, non generato, che procede dal Padre senza essere il Figlio, Santo perché santificatore, raggio di luce, ispiratore delle Sacre Scritture, potenza di Dio, Spirito vivificante e consolatore, difensore e creatore, insegnante della verità totale, dono del Figlio senza che il Figlio ne sia privato e senza aggiungere nulla allo Spirito, nell’agire e in tutto indissolubilmente unito al Padre e al Figlio. La chiave ermeneutica introduttiva e dunque quella di lasciarsi “lavare i piedi” con l’Acqua viva dello Spirito, e questo dopo essere già resi mondi con l’immersione del Battesimo. Pur essendo suoi discepoli e sacerdoti, senza lo Spirito Santo ricevuto unitamente al perdono dei peccati non si ha parte col Lui dell’eredità eterna.
Il Santo Padre Benedetto XVI, nell’omelia della Messa “in cena Domini” pur interpretando la lavanda dei piedi nel suo significato più ampio di invito-azione di Gesù Sacramentum, identifica questo gesto simbolico con l’invito alla Confessione sacramentale necessaria per ogni cristiano che si sporca i piedi nel cammino della vita e più in generale alla indispensabile riconciliazione con i fratelli:
“Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che gli siano lavati anche il capo e le mani. A ciò segue la parola misteriosa di Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi” (Gv 13,10). […] Qui, con la distinzione tra bagno e lavanda dei piedi, tuttavia, si rende inoltre percepibile un’allusione alla vita nella comunità dei discepoli, alla vita nella comunità della Chiesa – un’allusione che Giovanni forse vuole consapevolmente trasmettere alle comunità del suo tempo. Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve essere ripetuto è il Battesimo – l’essere immersi nella morte e risurrezione di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una nuova identità che rimane, se non la gettiamo via come fece Giuda. Ma anche nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con Gesù abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”. Di che cosa si tratta? Mi sembra che la Prima Lettera di san Giovanni ci dia la chiave per comprenderlo. Lì si legge: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” (1,8s). Abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”, della lavanda dei peccati di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati. Come ciò si sia svolto precisamente nelle comunità giovannee, non lo sappiamo. Ma la direzione indicata dalla parola di Gesù a Pietro è ovvia: per essere capaci a partecipare alla comunità conviviale con Gesù Cristo dobbiamo essere sinceri. Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui.Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice semifalsità o falsità aperta s’infiltra continuamente nel nostro intimo. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell’anima, dell’uomo interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi: lasciarci sempre di nuovo lavare da quest’acqua pura, lasciarci rendere capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche sangue (Gv 19,34; 1Gv 5, 6.8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del suo sangue, cioè con il suo donarsi “sino alla fine”, sino alla Croce. La sua parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue “per la vita del mondo” (Gv 6,51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. […] I Padri hanno qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole sacramentum ed exemplum. Sacramentum significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione fino alla croce e alla risurrezione: […] L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa. All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.”
L’abluzione delle mani del Sacerdote all’Offertorio
Oltre all’atto penitenziale, per i fedeli e ancor più per il Sacerdote celebrante, vi è un semplice e significativo gesto che richiama il lavacro di rigenerazione del Battesimo ma più specificamente un atto di umiltà e di “purificazione” ad opera dello Spirito Santo: “lavami Signore da ogni colpa e purifica da ogni peccato”. Non solo le dita o le mani, ma tutto il capo e il cuore vogliamo immergere nel costato di Gesù, per essere resi degni di partecipare e celebrare il Mistero del Sacrificio Eucaristico.
La prima vittoria sul Maligno deve avvenire in noi per opera dello Spirito Santo. Chi sconfigge il Male è Cristo Gesù nostro Signore che agisce in noi e attraverso i suoi discepoli opera nel mondo affinché gli uomini siano liberati dall’oppressione di Satana. Come si può esorcizzare il maligno avendo nel cuore il veleno del peccato? Se manca l’umiltà di riconoscersi per quello che si è, come affrontare il combattimento con la creatura angelica caduta per la sua superbia? In colei che per grazia è vittoriosa sulle tenebre del Maligno, risplende la virtù dell’umiltà; nascosta Serva del Signore diviene Regina degli angeli e dei santi, piena di grazia perché svuotata di sé, pura e senza macchia, Vergine Immacolata prega per noi!